Lecce è la città dove sono nato e cresciuto, da cui sono partito e a cui sono temporaneamente tornato, senza particolari istinti o sentimenti di radicazione e attaccamento ma con l’affetto e al tempo stesso il distacco verso un luogo che è familiare.
Ho preferito e spesso vissuto lo spazio arido e limitare dove il tessuto urbano degrada lentamente verso la non-ancora-campagna, quella cesura apparentemente deserta e immobile in cui l’urbano diventa rurale e viceversa. Dove si alternano i cantieri dismessi, gli immobili a rustico, i fondi recintati e incolti, abitati da vegetazione casuale, i cigli sterrati delle strade, i materiali di risulta, le plastiche ingiallite, gli elettrodomestici bianchi. Dove in lontananza appaiono le ultime case isolate e quelle che erano state una volta masserie. Dove si incrociano le vie vecchie oggi sostituite in parallelo o in perpendicolare da doppie corsie provinciali o doppie carreggiate tangenziali.
Mi hanno emozionato di più i lembi sfilacciati e ordinari, i vissuti quotidiani conosciuti solo a chi si è trovato a starci o a passare.
Lecce è una città dove il sole ti abbaglia. Si riflette forte sulla pietra, ma sbatte inclemente e spietato sugli spiazzali di asfalto, sui lastricati e sui lato strada attraversati da venature irregolari di vegetazione spontanea, senza riparo.
Sbatte e brucia, si fonde sul bitume e lo sterrato e balza indietro a mo’ di fumo, di fon o di specchio sfocato.
Il vento è caldo, si confonde con l’aria di scarto di un frigo se non gli si presta attenzione, lascia a stento il respiro e un desiderio inatteso.
Il silenzio è rotto dal fragore meccanico del mezzo che riprende le casse e le buste, ogni sorta di scarto di frutti lasciati marcire, stampelle di plastica rotta e fili di acciaio, roventi del fuoco bruciato per ore.
Il silenzio è solcato dal trascinarsi di buste e di cellophane, dal graffiare di cassette di legno sulla breccia tagliente della piazza nera e grigia, contrastata dal blu vuoto del cielo e infilzata da steli di alberi giovani a promessa di un ristoro in un futuro lontano.
Il silenzio si vede, ha il sapore dei raggi che scottano senza difesa, ha la forma di una donna anche troppo vestita che ricerca e raccoglie tra le scorie di ciò che rimane.
Il silenzio prima era fatto di grida, chiamate, allusioni, gelati e accessori di moda, polvere e muffa di pezze, mischiato ai sudori e ai calori.
Il silenzio prima era bagnato dall’odore pungente della salamoia, dalle voci cantate e sorde, dal fragore dei portelli sbattenti dei furgoni.
Il silenzio era coperto da un brusio quotidiano di donne ancora belle e sguardi tagliati; dalle pelli arse, dagli occhiali doppi e le teste increspate.
Il silenzio era bucato dallo scintillio delle aste metalliche che incontrandosi si fanno campane e cadono in terra, ricamato dallo scorrere rotto dei carrelli d’acciaio.
I camion rubano il silenzio e i mucchi di quello che resta, restituendo la piazza nuda e sfregiata, di nuovo ad annerirsi e a sbiancarsi, senza pace dal sole.
Il silenzio come assenza. Come sottrazione e, quindi, come aggiunta successiva di nomi, cose e nomi alle cose che una volta erano, e ora sono altro.
Il silenzio come un luogo. Mi piace il punto di vista. Lavoro sul tema per un progetto parallelo alla mia vita e ragiono sul silenzio che, come il vuoto, non esiste, se non per sottrazione e assenza, di rumore e di cose.
Grazie per questo affresco che mi ha fatto fermare e stare zitta, a leggere e respirare il caldo che sbatte ovunque e mi arriva in gola.
Belle le immagini che usi e i voli che fai con le parole.